Demenza senile: vecchiaia o evoluzione?
Estratto della diretta estratto della diretta RigeneraLife.con la dott.ssa Rossana Becarelli,
medico, antropologa, esperta in umanizzazione delle cure, filosofo della scienza
Al di là dei luoghi comuni…
Prima di tutto, la coscienza, la nostra identità.
Cosa troverai in questo articolo:
La mia esperienza
Mentre mia madre scivolava nella demenza, tra stupore e dolore, mi sono domandata, cosa sento che mi manca di lei in questo momento? Mi sono ritrovata, con grande sorpresa, a sentire la mancanza di quei suoi aspetti meno gradevoli, soprattutto di alcune sue rigidità. Arrivare con qualche minuto di ritardo al pranzo domenicale era per lei una tragedia che, poi, si riversava su tutta la famiglia! Mia madre è rimasta come immobilizzata in quei momenti della sua vita. La demenza è arrivata perché, ad un certo punto della vita familiare, non c’era più rispetto degli orari, ognuno poteva fare quello che voleva, tutto si era semplificato. Dov’era mia madre, chi era prima, cosa conoscevo di lei, era veramente quello che voleva lei?
Pian piano ho cominciato a comprendere.
Lei vede e conversa con i suoi familiari trapassati. Forse dà segni di demenza perché vede cose che non ci sono, ma come insegna lo sciamanesimo, il dott. Nader Butto, esiste un mondo intermedio nel quale si cominciamo ad aprire parti della coscienza, della percezione che abbiamo completamente chiuso nella vita ordinaria, facendo emergere come la cultura ha fatto su di noi cose non necessariamente buone.
Mi occupo di degenerazione e mi rendo conto che gli stereotipi e i pregiudizi affliggono tutti noi professionisti. Chi è affetto da demenza, invece, è come un bambino, fa quello che vuole, si diverte, anche se ogni giorno scende un gradino sempre più in basso.
Nella mia infanzia, ricordo, i vecchi “rimbambivano”, cioè tornavano come bambini, ed era normale averli in casa. Il “rimbambimento” è nello sviluppo fisiologico dell’esistenza, pur riconoscendone le implicazioni difficili, come quelle di quando ci si trova a gestire, ad esempio, la perdita del controllo degli sfinteri.
A quell’epoca, vi erano i bambini- bambini, quelli che dovevano ancora apprendere le connessioni con la società, la cultura, e poi i vecchi che scendevano dall’altra parte della parabola, ma nella stessa direzione. Come antropologa, credo che siamo noi ad aver costruito il corpo con l’idea della patologia, la stessa che oggi fa ospedalizzare le donne che devono partorire, un’esperienza che un tempo si faceva in casa, e forse non era un male!
Tendiamo a dare etichette patologiche a molti fenomeni della vita perché siamo diventati incapaci di considerarle fasi normali dell’esistenza, cicliche nello sviluppo dell’individuo. Sentiamo frustrazione, delusione perché l’altro non risponde più come noi ci aspettiamo, alle nostre provocazioni in quella che è però una condizione naturale. Abbiamo una specie di avversione alla naturalezza. Anche nei riguardi dei bambini, quando acceleriamo il loro processo di apprendimento, li spingiamo precocemente a fare tante cose, che imparino, che camminino, che parlino presto! Nel diventare giudicanti nei loro confronti cominciamo a rompere equilibri di felicità, di gioia. Chi non si è preoccupato del fatto che il figlio del vicino ha cominciato a parlare prima del proprio, oppure quando il livello performante del proprio bambino non era in linea con le attese? Purtroppo, spingiamo con ansia i bambini alla precocità, considerando questo un segno di evoluzione, forse cognitiva, ma non credo lo sia dal punto di vista spirituale. La corsa alla performance ormai ci connota, inizialmente, perché si raggiunga presto e alla fine della vita perché non la si perda, perdendo di vista il senso dell’esistenza, quello che è importante per recuperare le nostre radici, per vivere e chiudere un’esistenza degnamente.
Le circostanze avverse su un individuo affetto da demenza sono i nostri sentimenti giudicanti, apprensivi che non gli consentono di andare naturalmente verso la fine della vita, talvolta anche in maniera gioiosa, anche se, sappiamo, non sempre è così. Ma anche in casi più difficili mi rendo conto di come il processo naturale sia più intelligente di noi: mia madre sta perdendo la vista, nello stesso momento in cui perde la sua agilità motoria. Sarebbe stato, infatti, molto pericoloso per lei se fosse rimasta agile e robusta come prima senza la capacità di auto governarsi.
In questa fase della sua vita, dove il suo declino sensoriale è tutto coerente, vedo la perfezione della Natura che ci rende pronti alla conclusione terrena. Avrebbe sofferto del suo declino per via dell’atteggiamento giudicante che permea tutti noi!
Ho imparato a essere naturale da mia figlia quando era piccolissima. Un bambino, infatti, arriva da un mondo intermedio con informazioni importanti che, purtroppo, perde a causa del processo di “addestramento esistenziale” a cui lo sottoponiamo noi adulti.
Si gode gli ultimi attimi preziosi della vita, il sole che la scalda, le cose che le vengono date, mi rendo conto che questo è per mia madre un momento eccezionale, di sospensione del giudizio, in cui lei, finalmente, dorme bene come non ha mai fatto nella sua vita per via della sua insonnia cronica, ha una pressione e funzioni normali. Insomma, tutto fluisce in lei con una regolarità che denota un equilibrio di base che, spesso, noi andiamo continuamente a ostacolare.
La malattia è il frutto dell’attrito fra una necessità profonda e la funzione razionale che la impedisce, è un messaggio che ci viene mandato perché cambiamo direzione per incontrare noi stessi, una dimensione che vogliamo oscurare per poterci adeguare a regole non nostre ma esterne.
Facciamo tutti un esercizio, da genitori, nei confronti della vecchiaia che si ricongiunge alla primordiale felicità del vivere: godiamo delle piccole cose, senza bisogni indotti che alimentano continuamente la nostra vita, per essere vezzeggiati, accarezzati come un bambino.
Mi permetto con mia madre quanto non mi sono mai permessa prima per tanti motivi. Ora posso godere di cose che faccio in nome della madre di mia madre. La nonna mi raccontava che sua figlia era una bambina bellissima che andava contro tutte le regole. Questo suo ciclo finale sembra offrirle l’opportunità di potersi riprendere quella vitalità che la nonna sicuramente non le avrà concesso.
La rabbia
La rabbia è un sentimento molto vitale, primordiale, che induce all’azione, spesso nella reazione, l’elemento “negativo”. Si impone a noi obbligandoci a riflettere su ciò che lo determina, ciò che diventa illuminante perché rappresenta il punto di massimo scontro tra ciò che vorremmo essere e ci viene impedito.
Non c’è mai uno stimolo esterno sufficiente a scatenare la rabbia, è tutta personale, come la tristezza, la mancanza, l’odio. Ci dobbiamo interrogare con sincerità, avere il coraggio di guardarci in uno specchio per domandarci cosa ci ha fatto veramente arrabbiare così tanto, estrapolare quel motivo che non possiamo dire.
È un bel sentimento per aprire un dialogo con sé stessi nonostante non sia apprezzato e, per questo, ancora di più importante, di rivelazione, che permette di iniziare una bella conversazione con sé.
Magari dopo esserci arrabbiati esploriamo dove l’abbiamo sentita questa rabbia, qual è stato il punto del nostro corpo più coinvolto – la frequenza cardiaca, la sudorazione, il rossore in volto, etc – indentifichiamo, per prima cosa, dove si è collocata la nostra rabbia.
Successivamente, sentire cosa all’origine ci ha spinto in quella direzione così incontrollabile e che viviamo con giudizio (non avrei dovuto farlo…). Invece è bene parlarci con la rabbia, andarci a fondo perché è molto rivelatrice.
La libertà
Mentre la rabbia la esteriorizziamo, la libertà la sentiamo quando ci sentiamo costretti da qualcosa. Non abbiamo la percezione della liberà fintanto che agiamo in un binario prefissato che abbiamo accettato. In realtà, la usiamo, la proclamiamo nella inconsapevolezza della nostra prigionia non esteriore ma interiore. Noi siamo prigionieri. La libertà è, ad esempio, quella di mia madre, sprofondata in uno stato di coscienza interrotta anche se può sembrare il contrario.
Giochiamo una partita costante della vita, dentro e fuori di noi, dove vogliamo anche vincere, ma abbiamo regole non proprio nostre, che ci prestiamo a rispettare ma che non sono nostre. Un grande successo lavorativo lo posso ascrivere alle mie qualità ma se poi non mi sento così soddisfatto…
La malattia la vediamo come una grave lesione della libertà, perché ci può precludere l’aspetto performativo della nostra realtà. Ebbene, per paradosso, la malattia è proprio l’indizio della nostra necessità di esplorare la parola libertà fino in fondo.
Ho lavorato per anni nell’ambito oncologico e posso dire che spesso il cancro è il segnale delle ragioni per cui si è arrivati ad esso, cioè, per il fatto che siamo prigionieri e vincolati alle regole imposte dall’esterno, a cui ci adeguiamo, sottomettiamo, senza essere in condizione di fare il cammino scelto, omettendo qualcosa di profondamente intimo.
Quali domande possiamo farci per verificare la nostra non libertà?
La prima domanda millimetrica collegata alla libertà è “in questo momento sono felice?”. La felicità è, infatti, l’indizio più importante per comprendere se siamo collegati alla nostra libertà. Possiamo raggiungere obiettivi, risultati ma senza essere felici.
Non ci consentiamo la libertà di essere felici, ci precludiamo la felicità come qualcosa di irraggiungibile. Dobbiamo prefiggerci di essere sempre felici, ogni minuto della nostra vita, non una volta al mese, all’anno, e trovare la strada per la felicità a cui abbiamo diritto.
Se la risposta alla domanda è no, come è per la maggior parte di noi, è necessario che ci concentriamo su cosa ci rende felici per scoprire che questo non è irraggiungibile, anzi, vederla come tale è il motivo per cui non siamo felici.
Dovremmo essere felici già solo per il fatto di vivere, per le piccole cose, sembra ridicolo ma questo è fortissimo per recuperare libertà e verità, la seconda dimensione più importante della vita.
Verità è forse anche più difficile della libertà. Dobbiamo raggiungere un patto di verità, anche nelle piccolissime cose, non solo nei grandi temi. Ad esempio: “sto mangiando quello che vorrei?” “cosa vorrei di questa persona davanti a me?”, “cosa vorrei vivere nel prossimo minuto?”.
L’esperienza professionale mi ha fatto comprendere come l’alzeimer sia un escamotage in vite perfette rivelando aspetti contraddittori, inaccettabili sul piano della morale. Mi rendevo conto che la malattia era una valvola di sfogo per dire ciò che non si era mai detto o fatto, in contraddizione con la rigidità dei comportamenti fino a quel momento assunti. Situazioni frequenti in famiglie perfette con vite di successo.
Nella malattia, capita, ad esempio, che, contrariamente alla compostezza del passato, una moglie affermi di non aver mai amato il proprio marito, che non avrebbe voluto fare nulla di quanto fatto, che gli rivolga accuse e affermazioni violente, facendo emergere una verità che non poteva uscire prima perché troppo contraddittoria. Ecco la malattia come un’esplosione di una vita di non detti…
Il lavoro e il denaro
Il lavoro è un’altra trappola mortale in cui siamo caduti, dove vige un moralismo terrificante nel fatto che bisogna lavorare, realizzarsi, portare uno stipendio a casa. La relazione ormai ineludibile per noi tra lavoro e denaro non è una condizione antica, ma piuttosto recente, ha circa 150 anni di storia e comincia con ciò che Marx chiamava lo sfruttamento della forza lavoro. Precedentemente non c’era un’idea del lavoro come è venuta a svilupparsi nella nostra società con una forte connotazione moralistica, che si radica in aspetti “religiosi” come il dovere, la colpa, per poi andarsi a unire col denaro.
Nel dopoguerra c’è stata un’azione sistematica per allontanare le persone dalla terra e farle andare a lavorare nelle fabbriche. Lavorare la terra poteva essere difficile, faticoso, ma aveva caratteristiche di naturalezza che riportavano alle radici. Uomo viene da humus (terra); Adamo viene da adama (terra). La terra ci connette alle nostre radici più profonde. I ritmi della terra avevano un’assonanza intima con l’uomo, permettevano il contatto dell’uomo con le sue radici spirituali, lavorare la terra consentiva di sperimentare la sacralità, la scintilla divina, che è in ognuno di noi, che ci proietta nell’eternità, da dove veniamo e dove torneremo.
La verità non dovrebbe sgomentarci ma, al contrario, rappresentare una chiave di felicità.
La gaiezza è totalmente assente dal lavoro. Non dobbiamo essere felici quando lavoriamo! Nel moralismo legato al lavoro non dobbiamo essere felici. Se lo si è non è lavoro!
Ho diretto un ospedale oncologico per tanti anni e uno dei miei principi guida era fare in modo che i pazienti potessero avere momenti di gaiezza. La cura è un privilegio, è immateriale, anche se può non apparire tale, ma quando lo è, e se c’è, mette in contatto gli esseri per sprigionare una reciprocità, una modalità dell’essere felici.
Lo scopo della vita è ritrovare le condizioni per stare bene, ciò che presuppone una reciprocità, lo stare insieme. La cura è anche stare bene quando si lavora per gli altri, qui si emana un’energia che contribuisce al benessere generale.
Come evitare l’educazione-addestramento?
Un genitore che non si pone il problema di essere felice e non si rende conto della sua mancanza di libertà o della difficoltà di esserlo è già un problema per il suo figliolo.
Tutta la libertà che a volte ci consentiamo non la permettiamo ai nostri figli per renderli adatti al mondo, come per proteggerli.
Mia figlia era una maestra naturale, di saggezza, bontà e io volevo corazzarla contro il mondo, per cui il mio ruolo non è stato di educarla ma di “addestrarla”. Mi domando sempre quanto sarebbe diversa se l’avessi lasciata libera di essere a costo di vederla perdente nella vita! Ho fatto di tutto per non farla sentire in difficoltà… come se il suo naturale altruismo fosse una fragilità… Invece, dovremmo liberare i nostri figli, creature straordinarie, lasciarli volare senza voler intercettare certe inclinazioni per indirizzarle e sottometterli alle regole. Lo scopo del nuovo mondo è di non arrivare all’alzeimer per dire certe cose… Questa è un’esercitazione necessaria. La vita è una palestra che ci porta inevitabilmente a conoscere una parte di noi, però tutto quello che capita, il dolore, la malattia, la sofferenza altro non sono che tappe necessarie per la nostra evoluzione.
La malattia è l’unica opera d’arte che ci si concede nella vita, non disprezziamola ma andiamo a comprenderci.
La malattia siamo noi, il corpo è il nostro veicolo per esplorare la nostra vita che, non è che una piccolissima parte della grande missione a cui siamo destinati.
Estratto della diretta estratto della diretta RigeneraLife.con la dott.ssa Rossana Becarelli,
medico, antropologa, esperta in umanizzazione delle cure, filosofo della scienza