Morte: fine o inizio?
Estratto dell’intervista con la dottoressa Rossana Becarelli
Medico, antropologa e filosofo della scienza
Cosa troverai in questo articolo:
Perché nasciamo?
Potremmo chiederci, invece, per cosa non nasciamo?
Se il senso della vita dovesse esaurirsi nell’accumulo di cose, nella produzione di merci, nell’affannoso tentativo di arrivare a un fine settimana in un luogo di delizie, ad avere una casa di proprietà, un lavoro migliore, sconfesserebbe la supponenza di cui si ammanta la civiltà occidentale nel considerarsi maestra, ispiratrice del progresso e dell’avanzamento della coscienza. Penso sia proprio il contrario: ci siamo dimenticati dei fondamentali dell’esistenza e penso ci sia una ragione, al punto dove siamo arrivati, anche nel pessimo uso che facciamo della terra, che è lo stesso che facciamo della nostra vita, come la terra fosse a nostra completa disposizione come un bene da consumare voracemente e distruggere. È lo stesso principio per cui facciamo una vita che di senso ne ha poco. La nostra cosiddetta civiltà ci ha molto allontanati dalla potenza, dalla ricchezza della Vita e dal fatto che la morte è un passaggio che avviene continuamente nella nostra vita e senza cui non potremmo vivere. Già solo questo può essere di ispirazione e constatazione biologica, dovremmo tener conto che il corpo è in continua trasformazione ed è dotato di poteri straordinari e, nel momento stesso in cui cresce, evolve, si guarisce in continuazione. A nostra insaputa ci guida in modo meraviglioso ma noi lo contrastiamo perché la nostra cultura, la ragione sono intervenute nei secoli per darci la falsa percezione di un corpo inadeguato, non sufficientemente abile, povero, in una vita misera in cui bisogna arraffare per sostentarsi e avere un posto nella vita.
Come diceva un grande maestro, guardate i gigli nei campi, non tessono e non filano eppure il Padre provvede a loro. E questo è vero per tutti. L’intero l’universo viaggia senza che abbiamo un conto in banca, la necessità di bollare una cartolina per dimostrare che, lavorando, esistiamo senza il bisogno di accumulare per sentirsi degni di vivere.
Questa è già una prima constatazione. Se tutto l’universo, i pianeti, gli astri, le piante, gli animali, i batteri, etc. non ha bisogno di un conto in banca mi sembra abbastanza umoristico il fatto che l’essere umano ne abbia bisogno per sentirsi tranquillo!
Una delle condizioni nelle quali questo accumulo di informazioni errate ci ha condotto è il vivere in un continuo senso di mancanza, di privazione e anche di ansia perché temiamo che ci venga sempre sottratto qualcosa, anche sul piano dei diritti, e in questo ci sentiamo sempre più avviliti e più poveri. In un progetto così straordinario l’uomo è sicuramente una delle figure centrali, pure nello sviluppo della creazione, non fosse che per la nostra stazione eretta che siamo gli unici a sostenere nel mondo animale, in qualche modo, un collegamento tra parte superiore, cielo, e inferiore terra. Funzioniamo come vere e proprie antenne ricettive, abbiamo a disposizione molte informazioni che spesso eludiamo, trascuriamo, travisiamo.
La nostra cultura, in particolare, negli ultimi secoli, ha fatto del suo meglio per strapparci alle nostre radici. Noi ci chiamiamo “umanità”, l’uomo si chiama “uomo”, a partire da Adamo, perché veniamo dalla terra. Adamo, adamà, terra, siamo una parte senziente della Terra e come parte di essa siamo un conglomerato di materia nella quale prendiamo forma. In molte tradizioni sapienziali si afferma l’idea di una volontà superiore che anima, che dà il soffio, il respiro a una manciata di terra, “animazione” che fa di noi soggetti particolari, portatori anche di una missione, per cui siamo qua non solo per fare esperienza di noi ma anche di un’esperienza più complessa attraverso la quale, così dicono i mistici, la divinità prende corpo, si fa uomo e si fa conoscere attraverso l’uomo.
Ridurci solo a soggetti consumatori, produttori timorosi e con la percezione della carenza e della scarsità è un errore indotto in noi perché se andiamo alle nostre radici, troviamo la nostra potenza che ci mette in condizione di conoscere parti della esistenza a cui non poniamo attenzione scoraggiati intenzionalmente dalla nostra cultura.
Sono un’antropologa e mi sono misurata con altre popolazioni di tradizioni millenarie, l’uomo ha infinite frecce al suo arco che sarebbe ora iniziasse a scagliare verso il cielo.
Stati transizionali
Il grande maestro che sopravvive alla colonizzazione occidentale, l’Oriente, ha una tradizione sapienziale antichissima, di grande profondità, al limite tra filosofia, metafisica, mistica ma anche della fisica, ci dice la fisica moderna, perché le sapienze orientali avevano una percezione dell’esistenza molto più complessa della nostra. Noi abbiamo una percezione ridottissima definita nei cinque sensi, di cui pure facciamo scarso uso e spesso deviato.
Nella tradizione orientale si apprendono tutta una serie di stati transizionali che noi genericamente chiamiamo coscienza, ma che sono coscienza di sé a livelli profondi fino a intercettare la fisiologia dell’organismo. Questo è per noi è impossibile.
Designiamo il nostro sistema nervoso in due sistemi, uno sotto il nostro controllo, il simpatico, e uno che chiamiamo autonomo, fuori dal nostro controllo, il parasimpatico. Studiando le pratiche di queste antiche sapienze orientali scopriamo che il sistema nervoso autonomo tale non è poiché siamo noi a non saperlo governare. Governandolo, infatti, impariamo ad andare in profondità in noi e apprendiamo cose di noi, che la scienza occidentale non è stata in grado di dimostrare. Questo ci può accompagnare in una scoperta straordinaria sul senso della nostra vita.
Non siamo qui solo per accumulare, per produrre, distruggere la terra, ma siamo qui perché abbiamo qualcosa da fare, la nostra vita non è casuale, non siamo l’esito accidentale dell’incontro di due gameti. Esiste una necessità della nostra esistenza, che dobbiamo riempire di tutto il nostro impegno, della nostra consapevolezza per fare di questa vita un transito che ne valga la pena fino ad arrivare alla morte.
La morte è “il fine” della nostra vita, a cui arrivare in coscienza, nella pienezza e nel riconoscimento di sé come parte senziente dell’universo con un compito specifico.
Dunque, la vita serve per andare a scoprire nel corso degli anni perché sono stato messo qui, in questo luogo, in questa condizione, in questo momento, con il mio nome e con tutto il resto. Per fare questo ci avvaliamo della morale, dell’etica, stampelle che la nostra ragione si è data per cercare di ricostruire a posteriori ciò che ad altri è stato dato di conoscere fin dall’inizio della propria esistenza, insieme alla possibilità di transitare da un’esistenza all’altra.
C’è un perché metafisico della nostra stazione eretta che ha a che fare con la retta via. Nella grande cultura orientale stare eretti è mantenere aperti i canali per permettere la migliore circolazione dello spirito, che è una delle condizioni per governare al meglio la coscienza e la salute. Rettitudine, quindi, nel senso di fisiologia e di vigilanza. La schiena dritta ha il suo perché, è una condizione che si acquisisce, e già questo dovrebbe darci il senso che non siamo qui per caso, poiché è uno sforzo che il corpo sostiene per esigenze più elevate, eterne, universali di quanto non sembri a noi nel nostro piccolo mondo orizzonte.
Siamo dove dovremmo essere…
Insisto sul concetto di antichi saperi che non vanno trascurati solo perché non appartengono alla nostra cultura. Fanno parte di una consapevolezza dell’umanità intera, sono suo patrimonio, quindi bisogna essere attenti a quanto si è detto nei millenni e spalancare le porte di una conoscenza più profonda che abbiamo limitato solo alla coscienza cognitiva della ragione. La ragione per cui siamo qui in questo momento non è frutto di una casualità accidentale ma di una necessità della nostra anima che vive, ci precede, ci seguirà, apparteniamo all’anima più di quanto l’anima non appartenga a noi. Noi siamo solo l’esperienza terrena contingente dell’anima che sceglie di incarnarsi in quella particolare situazione perché le è necessaria per il suo percorso evolutivo, ad esempio, per andare a riparare colpe precedenti, svolgere compiti più elevati come quello di aiutare altri ad evolversi. Anche la condizione più catastrofica, apparentemente negativa ha il suo perché, svolge nella storia eterna dell’anima una particolare funzione, che ha la necessità di riparare un torto subito, un torto inflitto, di depurare qualche situazione.
L’evoluzione è un processo depurativo. La malattia che appare sempre a noi occidentali come un male, in realtà è una condizione molto particolare in cui il corpo affronta una situazione, di solito, molto ostacolante proprio perché si impara tramite le difficoltà.
Interconnessi con l’Universo
Siamo interconnessi con tutto l’universo non dobbiamo solo limitarci ai nostri genitori, dietro i quali ci sono gli antenati, poi c’è la comunità alla quale apparteniamo, la comunità dei viventi, quella dei morti, dei trapassati, delle anime inquiete, e c’è la realtà dell’universo intero.
Uno dei grandi sforzi che si possono fare nella vita è arrivare a percepire questa interconnessione. Essere nella coincidenza di una particolare situazione storica, familiare, geografica, etc ha una necessità intrinseca in cui l’anima ha scelto. Un tema molto forte. Ci sentiamo di essere spesso come foglie sugli alberi ma non è esattamente così, dovremmo assumerci più responsabilità dirette nella scelta che intraprendiamo alla nascita. Il fatto è la cultura occidentale ci ha impedito in qualche modo di percepire questo evento.
Il transito nelle esistenze è una delle modalità con cui la cultura tibetana riconosce i propri maestri, i propri lama. Un bambino, di solito anche molto piccolo, sa riconoscere ciò che già è avvenuto nella sua evoluzione di vita in vita, è entrato nella materia per svolgere il compito elevato di maestro, ma ha perfetta memoria di ciò che è avvenuto prima. Gli altri maestri lo riconoscono perché ci sono segni inequivocabili dei suoi passaggi terreni, che lui fa propri nella vita attuale.
Sostanzialmente ci siamo dimenticati di ciò che è successo. In un frammento, Eraclito, nel 4500 a.c, accenna a una situazione preesistente alla sua, alla memoria di qualcosa successo prima ma di cui non aveva più la diretta percezione.
La parola “verità” in greco si dice aletheia che significa “uscire dallo stato di oblio” in cui siamo stati condotti perché alla nascita, secondo la mitologia greca, veniamo immersi nel fiume Lete dell’oblio, rientriamo nella condizione terrena dimenticando ciò che abbiamo vissuto in precedenza. La verità è ciò che si disvela a noi sottraendoci all’oblio del Lete, aletheia, lo sfolgorio della verità che ci riguarda.
I greci per questo, forse, erano quelli più vicini alla tradizione orientale, non per niente, vi erano partecipi in qualche modo. “Conosci te stesso” è uno dei precetti dell’apprendistato della vita greca.
Dunque, per che cosa siamo al mondo?
Per ricordare ciò che eravamo prima e riconoscere la ragione per la quale siamo venuti sulla terra il compito che dobbiamo svolgere e, naturalmente, al momento della morte, fare un
bilancio per capire se saremo finalmente liberi dal vincolo terreno per le prossime esistenze e potremo contemplare l’infinito splendore dell’universo, se il nostro compito è stato portato al termine. E, se ci resta ancora qualcosa da fare, ci toccherà tornare.
Gli studi di un grandissimo linguista europeo Émile Benveniste evidenziarono che la lingua non è solo presente nel lessico con un significato, ma viene informata da una vibrazione che inserisce nella relazione sociale un senso complesso.
Siamo frutto di energie complesse. Energia è quella di questo aspetto fenomenico con questa apparenza ma potrebbe averne molte altre. Questo lo vediamo quando facciamo degli esami, con i raggi vediamo le ossa, con l’ecografia vediamo gli organi interni, la prova palese del fatto che siamo energia.
Il senso profondo dell’universo sono le vibrazioni. Il logos della Bibbia è una vibrazione che si articola e si declina nel corso dei secoli, dei millenni anche dentro di noi. Quando esercitiamo un atto di parola facciamo un atto vibratorio potentissimo nel quale siamo portatori di un significato ma non è meno importante il significante, la forma vibratoria fonetica che fa la differenza.
Non solo significati ma forme vibratorie che hanno impresso alla storia dell’umanità un certo indirizzo.
L’umanità è parte dell’universo ma è intrisa di queste vibrazioni, di cui è l’antenna ricettiva, avendole impresse dalla remota origine fino alla prossima lontanissima finalità.
Il mistero della morte
La storia della filosofia è una specializzazione cognitiva della cultura occidentale, non è assimilabile alla filosofia orientale. La filosofia greca fu spazzata via dalle invasioni barbariche a cui ha fatto seguito un lungo periodo di riconquista, gli arabi furono i primi a riscoprirla e a valorizzarla.
Nella nostra cultura la morte non è stata sempre vissuta allo stesso modo. Ad esempio, nello stoicismo la percezione della morte è simile a quella dell’Oriente, c’è una specie di accettazione di questa fase transitoria. Socrate si prepara alla sua morte, e l’affronta da stoico come Seneca. Sono convinta che la loro morte sia stata molto più agevole di quella, più sofferente, di Gesù. Il trapasso in coscienza è un’esperienza a cui bisogna essere addestrati per via dell’elevato turbamento che genera. Tutto l’Occidente è stato schiacciato dall’idea della colpa che si accumula nella vita e il conseguente timore che il giudizio successivo alla morte non sia favorevole. La chiesa cattolica verso il 1100 escogita il sistema delle indulgenze grazie alle quali diventava possibile scampare le fiamme dell’inferno e avere uno sconto di pena pagando. La chiesa fu abile nel creare una grande aspettativa di terrore, e anche l’iconografia medievale fu un susseguirsi di immagini molto raccapriccianti, soprattutto in certe aree del nord Europa.
Moriamo continuamente…
L’Oriente è maestro perché rendendo concreta l’esperienza con una coscienza completa dell’organismo, addestra ad arrivare, a governare e a riconoscere cosa succede alla nostra intima intrinseca struttura. Se quest’ultima è energia e ne siamo consapevoli e protagonisti succede che affrontiamo i continui, naturali stati transizionali e comprendiamo come il passaggio finale altro non sia che la ripetizione di un passaggio già avvenuto in noi. In ogni momento, infatti, perdiamo milioni di cellule, una parte di noi già muore perché rimodella plasticamente il nostro organismo, se le cellule non morissero saremmo giganti smisurati. Il nostro corpo vive questa esperienza di morte in continuazione. Di recente la biologia ha scoperto che nelle cellule c’è un programma, l’apoptosi, per cui le cellule sono destinate a morire, quelle che non muoiono sono quelle cancerose, cioè quelle che hanno perso la capacità di morire. È per quello che il cancro fa aumentare la massa.
I grandi yogi orientali hanno la percezione dei loro stati transizionali, sono molto consapevoli dell’energia che anima e sono in grado di seguire questi processi evolutivi fino al momento della morte. I grandi lama sono in grado di stabilire il passaggio della morte e governarlo in grande consapevolezza. Per loro questo è lo scopo della vita, passare la soglia della morte consapevolmente e rientrare nella successiva reincarnazione allo stesso modo. A noi sembra incredibile perché non siamo in grado di governare questa parte. I grandi meditanti sono in grado di modificare il battito cardiaco fino a rallentarlo rendendolo quasi inesistente, modificare la temperatura, resistere a temperature gelide senza effetti. Tutto questo appartiene alla possibilità dell’uomo, nella misura in cui ne è capace ma l’importante è comprendere come sia la prova del fatto che non siamo ciò che ci sembra di essere, come fossimo nati per caso.
La mente si ostina e si oppone a una conoscenza profonda, rimane a livello cognitivo, si esercita ma non è partecipe dele processo energetico non è capace di scendere nella profondità di ciò che ci anima.
La morte non è la fine di tutto perché è solo uno degli stati transizionali a cui siamo esposti nella nostra apparente vita terrena, milioni di cellule muoiono nel nostro corpo, per cui la morte è una dimensione già esistente e necessaria in noi.
Quando una grande parte di noi compie il salto della morte, l’energia che anima la vita non si può perdere, per la fisica, nulla si crea e nulla si distrugge, noi siamo partecipi – come esseri biologici, chimici, fisici – dell’universo. Il problema chiave è che in Occidente non ne abbiamo coscienza ci sentiamo ancora i peccatori del medioevo…
Uno degli elementi sconvolgenti della morte è la decomposizione del corpo, gli odori che emana, il tornare nel caos delle origini, questo è qualcosa che ripugna all’essere umano ma che però lo protegge dall’eccessivo contatto.
Se entriamo in certi stati di coscienza in cui ci allineiamo a certe frequenze viviamo un momento straordinario di trapasso, possiamo accompagnare o essere accompagnati a essere noi stessi. La buona morte si impara, è un momento preziosissimo della vita.
Bisognerebbe affinare la propria fisiologia sottile per poter fare esperienza in vita della morte, momento di rivelazione, di verità, Accompagnare qualcuno a cui teniamo in questo momento non è meno importante della nascita.
La nostra mente mente. Lo scopo primario della meditazione è proprio mettere a tacere la mente. Un grande maestro sosteneva che la meditazione è il periodo più lungo tra due pensieri, questi ultimi forieri di pessime indicazioni. Tentare di sgomberare la mente da pensieri e condizionamenti è il massimo che possiamo fare.
Il primo insegnamento che abbiamo dalla morte è che dobbiamo vivere con pienezza. Uno dei grandi precetti di cui far tesoro. Nulla ci deve distogliere dal piacere di vivere.
Estratto dell’intervista con la dottoressa Rossana Becarelli
Medico, antropologa e filosofo della scienza